domenica 26 gennaio 2020

Dal Regno delle due Sicilie all'Unità d'Italia

Le poste e la Filatelia nel regno dei Borbone La dinastia dei Borbone di Napoli regnò nel nostro Meridione per centoventisei anni, 1735, fino a quando l’impresa garibaldina e il Piemonte dei Savoia non ne debellarono l’ultima resistenza a Gaeta nel 1861 Il Regno delle Due Sicilie, invece, fu uno Stato sovrano dell'Europa meridionale esistito dal dicembre 1816 al febbraio 1861, ovvero dalla Restaurazione all'Unità d'Italia. Verso la fine del Seicento, il ramo spagnolo degli Asburgo, discendente da Carlo V (Carlo I come re di Spagna), giunge all’estinzione con Carlo II, che muore senza eredi e lascia vacante il trono di Spagna. Si apre quindi la fase della successione spagnola, sulla cui Corona avanzano le loro pretese “dinastiche” Luigi XIV di Francia (il Re Sole) e l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, che dell’ultimo re spagnolo aveva sposato le sorelle. L’erede designato per testamento fu Filippo di Borbone-Angiò, nipote del re di Francia, che salì al trono col nome di Filippo V; ma questo nuovo assetto, in base al quale Francia e Spagna venivano a trovarsi sotto la Corona della stessa dinastia dei Borbone di Francia, provocò ovviamente la reazione dei principali Stati europei, Austria in testa, che in quella unione vedevano un indebito arricchimento territoriale a favore della Francia e, per questo, la possibilità che potesse sorgere una possente egemonia. Si giunse quindi al formarsi di una coalizione contro Luigi XIV e, di conseguenza, alla cosiddetta Guerra di successione spagnola, 1700, che si protrasse per ben tredici anni, e si concluse con la Pace di Utrecht del 1713. Con essa Filippo di Borbone viene riconosciuto re di Spagna, a condizione però che non vengano mai unite le corone di Spagna e Francia (vanificando così il progetto del Re Sole che immaginava che, fra i due Stati, “non esistano più i Pirenei”), e che nè l’uno nè l’altro sovrano avrebbero avanzato pretese sullo Stato confinante. L’anno seguente, però, l’Austria pretese la sua parte, e fu così che la Spagna dovette cederle la Fiandra, il Milanese, il regno di Napoli e la Sardegna. In tal modo, dopo circa due secoli, cessava il predominio spagnolo in Italia e ad esso si sostituiva quello dell’Austria, nuova potenza egemone in Europa, e il nostro Meridione tornò nelle mani degli Asburgo, questa volta al ramo austriaco. Nel 1715, entra in scena una donna, intelligente, volitiva e scaltra in politica. E’ l’italiana Elisabetta Farnese, erede del ducato di Parma e Piacenza, che sposa il re spagnolo Filippo V rimasto vedovo; il re, ormai malandato e in perenne stato depressivo, finisce col lasciare le redini del regno quasi completamente nelle mani di lei, Isabel de Farnesio per gli spagnoli, che con un'accorta politica e dopo alterne vicende diplomatiche e militari, finirà, nel 1735, con l’ insediare sul trono di Napoli (divenuta capitale di un nuovo regno) il proprio primogenito Carlo. Nacque così in Italia, con l'accorto e paziente operato di questa abile donna, un regno autonomo e indipendente da potenze straniere, il regno di Napoli e Sicilia, che sarebbe poi stato chiamato regno delle Due Sicilie. Carlo Sebastiano di Borbone è stato duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I dal 1731 al 1735, re delle Due Sicilie senza numerazioni dal 1735 al 1759, e dal 1759 fino alla morte, re di Spagna con il nome di Carlo III. Ebbe inizio in tal modo la dinastia dei Borbone di Napoli: una casata che, pur essendo una costola dei Borbone di Francia e direttamente derivando da quelli di Spagna, ebbe una matrice italiana, e italianissima fu e divenne col tempo, sappiamo tutti che i suoi re parlavano in dialetto napoletano. Quindi casata italiana e con una politica estera ispirata a grande indipendenza dalle altre potenze, anche da quella spagnola, della quale era pur sempre una filiazione. Dopo un governo a Napoli, che passò alla storia per le sue riforme riparatrici di malanni secolari, a Carlo succedette il figlio terzogenito Ferdinando IV di Napoli (III di Sicilia), che, tornò in possesso dei due Regni in seguito al Trattato di Casalanza firmato presso Capua del 20 maggio 1815, unificò il regno di Napoli e di Sicilia nel dicembre 1816 e assunse il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie e regnò lungamente fino al 1825, tranne che per due brevi interruzioni, sulla parte continentale del regno, nel 1799 si costituì la Repubblica Partenopea e nel 1806-1815 i regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. A lui seguirono fino al 1860, anno in cui il Regno delle Due Sicilie fu annesso al Regno di Sardegna, Francesco I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) sposato con Maria Sofia di Baviera, sorella di Sissi, e Francesco II (1859-60), ultimi sovrani che guidarono il regno meridionale d'Italia, prima dell'Unità.
L’atteggiamento dei re borbonici, nell’Ottocento, finì col suscitare la malevolenza dell’Inghilterra, che, dopo la caduta di Napoleone, era diventata padrona incontrastata del Mediterraneo e che vedeva, al centro di questo mare, un regno niente affatto disposto a una pedissequa acquiescenza alla sua politica imperialista, un regno che voleva essere padrone in casa propria. La motivazione ufficiale di questa ostilità era, da parte dell’Inghilterra, il continuo rifiuto dei re borbonici di concedere al regno la Costituzione, nonché la reazionaria e repressiva conduzione dell’amministrazione della giustizia: in realtà le cause erano, come sempre negli attriti internazionali, esclusivamente mercantili. Ne fu un esempio la querelle sorta fra i due Paesi nel 1836 sullo sfruttamento delle miniere di zolfo siciliane (a quell’epoca le più importanti del mondo, con una produzione del 90% del fabbisogno mondiale). Il re Ferdinando II aveva abolito nei propri territori la tassa sul macinato, e, per compensare la perdita di questo introito per le casse dello Stato, era venuto alla decisione di vendere lo zolfo siciliano non più ai mercanti inglesi (che glielo pagavano una miseria e lo rivendevano a prezzi altissimi), ma ad una società francese che gli garantiva maggiori guadagni, pagandogli il doppio di quanto avevano sborsato gli inglesi fino a quel momento. A conseguenza di ciò, il primo ministro inglese lord Palmerston mandò la flotta britannica nel golfo di Napoli, minacciando il bombardamento della città. Dovette intervenire, come mediatore, Luigi Filippo di Francia. “Il risultato fu che lo Stato napoletano dovette annullare il contratto con la società francese e pagare gli inglesi per quel che dicevano d’aver perduto e i francesi per il guadagno mancato. Si disse che quello che era accaduto fosse come il destino delle pentole di terracotta costrette a viaggiar tra vasi di ferro. Chi ci rimise fu il regno napoletano; ma l’Inghilterra, nonostante avesse vinto, se la legò al dito come oltraggio supremo.”
Questa ormai dichiarata ostilità britannica, pare, favorì poi, nel 1860, anche il successo dello sbarco dei Mille a Marsala: è ben risaputo che questi ebbero la provvidenziale copertura della flotta britannica che, con il pretesto ufficiale di proteggere gli interessi dei cittadini inglesi che lì risiedevano, incrociava fra la costa e le navi garibaldine, rendendo quindi pressocché impossibile all’artiglieria borbonica di cannoneggiare le barche e contrastare lo sbarco, per il rischio di colpire le navi inglesi e provocare l’intervento armato della Gran Bretagna. (Mettiti la giacca buona) Le Due Sicilie vennero annesse al Regno dei Savoia dopo essere state “immotivatamente” invase. O meglio i motivi per invadere il Sud pare fossero: Savoia in bancarotta, condizioni del Regno d’Italia in condizioni penose! Così la pensavano in molti e ancora oggi sono in tanti a pensarlo. I Savoia, quindi, con l’aiuto dei massoni inglesi (peraltro pagati per corrompere i generali borbonici), invasero il Regno delle Due Sicilie che in quel momento, pare, detenesse il 60% di tutta la ricchezza italiana i moneta d’oro e d’argento (non in carta).
I Savoia, pare, non fossero affatto interessati all’Unità d’Italia: non parlavano nemmeno l’italiano, ma il francese. Prima di andare avanti è utile, sempre doveroso, ricordare cosa accadde a Fenestrelle il LAGER dei SAVOIA. La fortezza di Fenestrelle, la “grande muraglia piemontese”, dove i Savoia uccisero e occultarono migliaia di meridionali! (24.000-120.000) Moltissimi di italiani deportati da altri italiani in veri e propri campi di concentramento. Questa è la vera storia dei prigionieri di guerra del Regno delle Due Sicilie.
La storia ufficiale, quella scritta e divulgata sui libri di scuola, per lo più, parla di un Regno culturalmente ed economicamente sottosviluppato: quindi arretrato. Secondo questa tesi i Borbone governavano in modo dissennato e contro il benessere di tutte le popolazioni del Sud assoggettate, i Borbone vengono descritti quindi con ironia e disprezzo. In taluni casi il nome Borbone viene sempre associato ad una condizione di degrado ed arretratezza e Garibaldi con i “mille” sconfisse in Italia le dinastie liberando tutti i popoli dagli oppressori e creando l’Italia unita. Gli studiosi, però, da un po’ di tempo, descrivono il Regno delle Due Sicilie come la terza potenza economica europea con Napoli capitale di cultura ed innovazione europea insieme a Parigi e Londra. Il Regno delle Due Sicilie sembrerebbe fosse ricco, non povero! Importanti e all’avanguardia le così dette briglie borboniche, costruzioni formate da possenti mura di contenimento in pietra lavica per contenere il cedimento del terreno derivati da dissesto idrogeologico. Efficace ed all’avanguardia l’ingegneria dei Borbone. La mafia prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia. Parole, queste, pronunciate da una persona che aveva studiato il fenomeno mafioso e che la sapeva lunga sull’argomento, il giudice Chinnici, molto più di tanti storici che se ne sono occupati. Ma anche parole pesanti, difficilmente comprensibili per i ben pensanti. La parola “Maffia” compare per la prima volta in un atto ufficiale della Procura di Palermo nell’agosto del 1863, prima di quel momento non era mai stato trovato alcun documento ufficiale con tale appellativo.Ed è proprio l’etimologia del sostantivo che conferma quanto detto dal giudice Chinnici, secondo Santi Correnti infatti, sarebbe un termine piuttosto recente, forse derivato dal dialetto toscano. Altri ricordano come a Vicenza e Trento si usasse il vocabolo maffìa per indicare la superbia e l’altezzosità. Altri asseriscono che alla parola Mafia corrispondeva la definizione: “voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra”.Molti fonti storiche ormai sono concordi col fatto che l’impresa dei “mille” fu decisa a tavolino dalla massoneria, escludendo la partecipazione del popolo. Dunque il dubbio si infittisce e le domande si moltiplicano alquanto. Certo la storia della criminalità organizzata non parte dall’Unità d’Italia, in quanto, in tutta la penisola italica e forse anche in Europa, già esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale, ma tali germi sono stati innaffiati dal dopo-Unità, tanto da far nascere l’albero chiamato mafia come la conosciamo noi e cioè istituzionalizzata, Stato nello Stato. I Borbone e le Poste La costruzione di nuove linee telegrafiche in tutto il regno fu fortemente voluta da Ferdinando II. Nel regno l'uso del telegrafo ottico di tipo Chappe era attestato fin dal 1802, tuttavia la prima linea telegrafica elettrica napoletana fu costruita e messa in funzione solo nel 1853 tra Napoli e Terracina. Nei primi mesi del 1858 il sovrano fece redigere un nuovo regolamento per l'impianto ed il servizio dei telegrafi elettromagnetici, adottando i più moderni sistemi di Henley e Morse. Inoltre furono notevolmente incrementate le stazioni telegrafiche aperte ai privati, in quanto la maggior parte delle stazioni erano fino a quel momento impiegate per le sole comunicazioni istituzionali e con l'estero. Il territorio del regno fu ripartito in sette divisioni telegrafiche, suddividendo gli uffici che vi operavano in tre classi. La tassa minima si applicava ai telegrammi da 25 parole, il prezzo aumentava dopo altre 25 parole, poi ogni 50 parole, senza però calcolare le parole utilizzate per gli indirizzi. Questo sistema, comunque, venne in parte ripreso dal servizio telegrafico del Regno d'Italia. Il 25 gennaio 1858 venne inaugurata la linea telegrafica elettrica sottomarina tra Reggio Calabria e Messina, ed il 27 fu messa a disposizione dei privati. Nel 1859 vennero posizionati inoltre i cavi sottomarini tra Modica e Malta e tra Otranto e Valona, in collegamento con le linee telegrafiche dell'Europa centro-orientale. Seguirono numerose inaugurazioni di nuove stazioni e linee telegrafiche fino alla fine del regno, che trovò le Due Sicilie dotate di ben 86 stazioni e di 2.874 km di linee.
Nel campo della filatelia, il Regno delle Due Sicilie era all’avanguardia in Italia; fu qui infatti progettata – per la prima volta – l’introduzione del francobollo adesivo, come sempre sotto il regno di Ferdinando II. La prima proposta fu fatta al Re nel 1841 dall’architetto Amy Autran, al ritorno da un suo viaggio in Inghilterra, dove aveva osservato come il pubblico avesse favorevolmente accettato l’introduzione dei primi francobolli. L’Autran preparò alcuni saggi raffiguranti l’effige di Ferdinando II incoronato di alloro in ovale, disegnata da un certo signor Thomas e inciso da William Cave. I saggi furono stampati calcograficamente in foglietti di 15 esemplari, mentre la stampa fu eseguita in nero, celeste-ardesia, verde oliva e bruno rossiccio. Purtroppo, a causa di lentezze burocratiche, solo nel gennaio del 1857 venne nominata una Commissione con l’incarico di studiare «tutti gli immegliamenti che sia necessario od utile di arrecare nell’Amministrazione Generale delle Regie Poste e de’ Procacci». La Commissione lavorò con molta sollecitudine ed il 16 luglio 1857 poteva essere emanato il decreto di Ferdinando II sulla riforma postale, che rinnovò radicalmente l’intero sistema. Entrò in vigore il 1° gennaio 1858, giorno in cui fu posta in corso la prima ed unica emissione del Regno in quanto pochi anni dopo il regno borbonico verrà assorbito dal sabaudo stato unitario. E’ chiaro che, proprio questa esigua vigenza temporale dei valori postali borbonici, li renderà tra i più rari ed i più alti nel loro valore d’acquisto, anche a livello mondiale. I francobolli postali furono istituiti con un decreto del re del 9 luglio 1857. Il decreto imponeva di affrancare i giornali, le stampe e la corrispondenza in generale, con la facoltà di far pagare le spese postali e l'affrancatura al destinatario. Furono create sette serie di francobolli: da mezzo grana, da uno, da due, da cinque, da dieci, da venti e da cinquanta grana. I fogli erano soggetti a bolli di uno o due grana, a seconda della destinazione della lettera. I bolli si annullavano con un timbro nero, riportante la parola "annullato". La prima emissione di francobolli per le Poste Napoletane avvenne il 1º gennaio 1858. I nuovi francobolli erano di vari colori e generalmente riportavano incisioni su filigrana rappresentanti il busto di Ferdinando II o i simboli del reame. Negli anni a seguire la scelta definitiva dell’oggetto da raffigurare sui francobolli non cadde sopra lo stemma della Real Casa Borbonica, in quanto troppo ricco iconograficamente quindi rapportandolo sullo spazio ristretto del francobollo non avrebbe avuto adeguata e degna riproduzione, bensì si propose figure araldiche liberamente riprodotte raffiguranti 3 gigli, cavallo sfrenato e Trinacria. • Il cavallo sfrenato od inalberato che era il simbolo di Napoli; • La Trinacria emblema della Sicilia rappresentante i tre capi Passaro (Pachino), Faro (Peloro) ed Boeo (Lilibeo); • I tre gigli borbonici. L’uso del francobollo fu obbligatorio per tutti e la tariffa fu anch’essa uniforme, qualunque fosse stata la distanza, anche se variava in rapporto al volume e al peso della lettera. «Il principio dell’uniformità, inoltre, fu ritenuto giusto, considerata la tassa postale nel duplice aspetto di rimborso per un servizio effettuato dallo Stato e di imposta indiretta gravante ugualmente su tutti i cittadini, utile, perché avrebbe importato un immancabile aumento degli introiti e necessario, perché, semplificando le tariffe, ne sarebbe venuto un introito. Fino all'introduzione dei francobolli, la tassa postale (il cosiddetto "porto") era a carico di chi riceveva la lettera. Ma era anche permesso pagarlo in partenza. In tali ipotesi lo speditore doveva recarsi all'officina postale, dove l'addetto, pesata la lettera e calcolata la distanza (che la medesima doveva percorrere) incassava il denaro necessario e scriveva sulla busta la parola FRANCA (cioè franca di porto). Su tutte le altre buste , invece, scriveva, in carattere grosso e ben marcato (si da essere non solo ben visto, ma anche non cancellato o alterata) la cifra da pagare. Questo complicato lavoro finì il 1 gennaio 1958, quando anche il Regno delle Due Sicilie decise di attivare le "vignette adesive", cioè i francobolli. Anche qui la distanza, che la lettera doveva percorrere, non contò più; il peso ognuno poteva valutarlo da sè e applicare, di conseguenza, il francobollo giusto; inutile dire che il servizio se ne giovò. Anche il colore fu unico (il carminio, il rosa lilliaceo o ‘’feccia di vino’’) mentre il buon senso avrebbe voluto che fosse diverso, onde distinguere i valori a prima vista. L'unica distinzione era nella cornice. Perchè fu unico il colore di tutti e sette i francobolli ? Perchè il governo Borbonico viveva nella paura di manifestazioni di simpatia verso i re di Savoia, i quali, fin dal 1848, avevano concesso lo Statuto, senza più ritoglierlo. Secondo il re mettendo sulla busta due, tre francobolli di tinta diversa, si sarebbe potuta raffigurare la bandiera tricolore ed era ritenuta una colpa grave! A causa della politica e anche a causa della fretta, con cui si operò, la serie in parola risultò assai modesta, col suo unico disegno, nel quale i tre gigli risultarono pressoché invisibili I sette francobolli furono accusati di essere “monotoni”, ma, al contrario, essi si distinguevano da tutti gli altri esistenti in Italia per avere ciascuno di essi un riquadro differente anche se il colore prescelto per tutti fu il rosa.
Con decreto del 28 febbraio 1858 la circolazione dei francobolli fu estesa anche alle Poste Siciliane. I Francobolli di Sicilia costituiscono l'unica serie di francobolli, emessa dalla Posta di Sicilia il primo gennaio 1859, per le esigenze postali del Regno di Sicilia. La stessa serie è anche nota come "Emissione dei domini al di là del faro" o "Emissione del Regno di Sicilia" o "Effigie di Ferdinando II". I sette francobolli furono stampati in altrettanti diversi colori e corrispondevano a sette valori nominali espressi in "grana". Tutte le vignette sono illustrate con l'effigie di Ferdinando II disegnata da Tommaso Aloisio Juvara. Nel Regno di Sicilia, altrimenti noto come "provincie oltre il faro" il Regio Decreto del 9 luglio 1857 avvisò che il sistema di invio della corrispondenza tra le due amministrazioni delle Due Sicilie fin lì adottato e che non prevedeva l'uso dei francobolli era da ritenersi provvisorio Autorità preposta all'emissione per il Regno di Sicilia era Giovanni Cassisi Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia. Il Ministro Cassisi svolse una lunga indagine informativa inviando in Francia il tipografo Giuseppe La Barbera ai fini di relazionare sui metodi di stampa adottati e lo stesso La Barbera finirà per proporre di illustrare i francobolli con l'effigie del sovrano. Proposta che venne poi accettata affidando l'ideazione al miglior incisore del Regno: Tommaso Aloisio Juvara inteso "Masino" (1809-1875). Juvara preparerà poi otto incisioni: una formava la parte superiore del francobollo e sette la parte inferiore contenente l'indicazione del valore. Giuseppe La Barbera dalle incisioni formò una prima tavola di stampa composta da 100 francobolli e da sottoporre all'attenzione del Ministro Cassisi che a sua volta fece effettuare delle prove di stampa da presentare al Concilio dei Direttori del Dipartimento di Stato. Il 30 settembre 1858 il Concilio decise per incaricare Antonino Pampillonia di effettuare una nuova esplorazione presso Parigi alla ricerca di un metodo di stampa alternativo a quello galvanoplastico già in uso nel Regno. A Parigi il Pampillonia era già in contatto con il tipografo macchinista Emile Lecoq ideatore di una macchina da stampa che venne poi effettivamente acquistata e trasportata a Napoli per la produzione dei francobolli ma che non entrerà mai in funzione e verrà abbandonata presso una stanza della Zecca Reale. In seguito al fallimento del tentativo di usare la macchina di Lecoq fu riaffidata la produzione a Giuseppe La Barbera che utilizzando l'Officina Grafica di Francesco Lao situata a Palermo ne curò tutta la produzione. Venne effettuato prima un foglio di saggio contenente l'effigie di Ferdinando II, sette prove di stampa dei colori senza effigie ma con le diciture previste ed una prova dell'annullo a ferro di cavallo sia in bianco che sul saggio di un francobollo. Questo foglio sottoposto alla firma per approvazione da parte del Sovrano è oggi noto come "Scrigno Juvara". Il Regio Decreto del 29 novembre 1858 ne annunciava l'emissione che avvenne 1º gennaio 1859 e si componeva di 7 francobolli raffiguranti il profilo di Ferdinando II Re del Regno delle Due Sicilie. La serie non ebbe mai un documento che ne sancisse il fuori corso ma in seguito al Decreto del 27 maggio 1860 emanato da Giuseppe Garibaldi, nel corso della Spedizione dei Mille in qualità di dittatore, l'uso dei francobolli borbonici venne dichiarato soppresso. Infatti, il 22 maggio 1859 Ferdinando II morì a Caserta e gli successe sul trono il figlio Francesco II: non vi fu tempo di annullare la serie di francobolli e sostituirla con una del nuovo sovrano in quanto l'11 maggio 1860 iniziò con lo sbarco dei Mille di Garibaldi a Marsala . Questi, con Decreto ufficiale del 27 maggio, soppresse l'uso dei francobolli borbonici ancora prima che l'intera isola fosse nelle mani dei garibaldini; l'ultima data d'uso nota è il 23 luglio 1860 a Messina. Successivamente lo stesso annullo, studiato per preservare l'effigie reale, divenne motivo di beffa: qualche impiegato postale uso' l'annullo a forma di ferro di cavallo capovolgendolo a formare un paio di corna. Tradizionalmente le spedizioni postali via terra avvenivano 4 volte alla settimana da Napoli per le regioni continentali (e viceversa) e sei volte per l'estero (confine pontificio). L'Officina Centrale della Posta nel Regno delle Due Sicilie era situata a palazzo Gravina (Napoli). Con il decreto del 1857 furono istituite anche delle spedizioni postali "rapide" tra Napoli e Lecce, Napoli-Teramo e Napoli-Campobasso (e viceversa). Con ordinanza del 19 gennaio 1858 si stabilirono nuovi orari per le 6 linee principali: il tragitto per le Puglie doveva compiersi in 50 ore all'andata e al ritorno, quello per le Calabrie in 80 ore, quello per gli Abruzzi in 28 ore, quello per il Molise in 13, quello per Sora in 15 e quello per Terracina (confine pontificio) in 14 ore. Generalmente questi tragitti per l'interno del regno avvenivano sulle grandi Strade Regie, o in alcuni casi su strade provinciali minori, contemplando ben precise fermate per il cambio dei cavalli e stazioni di sosta per i passeggeri. È da ricordare infatti che il metodo più usato per viaggiare all'interno delle Due Sicilie era quello delle corse postali, che quindi contemplavano anche il trasporto di passeggeri. Si faceva largo uso dei trasporti via mare: era impiegato un buon servizio postale su navi a vapore per raggiungere le isole e l'estero.

lunedì 20 gennaio 2020

L'antico culto di San Sebastiano

Il culto di S. Sebastiano è legato ad un male antico: la peste. Anche se il Santo fu "bimartire", cioè, fu martirizzato la prima volta con le frecce e poi con bastoni chiodati, San Sebastiano viene raffigurato, in tutto il mondo, ucciso dalle frecce, perché, nell’antichità, rappresentavano il simbolo del contagio, della trasmissione della malattia. Inizialmente, San Sebastiano, ad Acireale, veniva venerato nell’attuale piccola chiesa di S. Antonio di Padova, ma, visto il grande numero di fedeli, si sentì la necessità di una nuova sede più grande e più maestosa, adeguata, cioè, all’importanza che il Santo acquisiva, anno dopo anno, in Aci e nel territorio circostante.
Il primo atto della confraternita fu quello di scegliere un terreno al centro della città e di approntare un programma finanziario, al quale contribuivano gli stessi confrati, i fedeli e l’amministrazione comunale.
La fabbrica fu avviata nell’anno 1608. Nel 1644 la confraternita si trasferì nella nuova chiesa e con essa anche il Santo. Naturalmente, i lavori non erano ancora ultimati: la chiesa aveva ancora bisogno , secondo i fedeli, di ulteriori abbellimenti. L’undici gennaio del 1693 un feroce terremoto colpì, duramente, la Sicilia orientale. Anche la chiesa di San Sebastiano fu colpita. In particolare crollarono gli affreschi del coro. Si doveva ricominciare. Due anni dopo ebbero inizio i lavori per la riparazione dei danni che vennero ultimati nel 1699. All’edificio, però, mancava ancora la facciata, elemento che doveva dare al sacro tempio un aspetto monumentale per competere con gli edifici religiosi che si stavano erigendo a Catania. A ciò provvedevano i confrati e i fedeli. Naturalmente, con questo gesto, si assicuravano una nicchia per la sepoltura, nella chiesa, loro e della propria famiglia. La magnificenza della facciata non fu concepita da un progettista o architetto, ma i lavori furono assegnati all’ingegno dei piccoli artigiani acesi, come il Bellofiore, al quale fu affidata l’esecuzione del disegno del progetto, che le confraternite fecero poi modificare perché ritenuto eccessivo per le possibilità finanziarie della chiesa.
Dalla fine del 1705, i lavori procedono speditamente. Vengono realizzate le opere ad intaglio delle colonne, dei frontespizi e cornici dai LAPIDUM INCISORES Diego e Giovanni Favetta. Nel 1715 la facciata era quasi ultimata, restavano solo gli abbellimenti del campanile, l’atrio, gli interni ancora spogli e una decorosa statua del Santo. Dal 1730 al 1731, un pittore affreschista, Pietro Paolo Vasta, ritornò ad Aci e ottenne l’incarico di affrescare la chiesa dopo un confronto con il pittore Costanzo: il Vasta ne uscì vittorioso e da quel momento divenne il pittore ufficiale della città di Acireale. Nel 1754, per completare la balaustra con le statue, i rettori affidarono l’incarico a Giovanbattista Marini, fu lui a scolpire le dieci statue su disegno di Paolo Vasta. Con la posa delle statue, 1756, la chiesa raggiunse l’aspetto che noi, oggi, conosciamo. Dopo si passò alla realizzazione del Fercolo. Alla fine dell’800 poi, il pittore Francesco Mancini completò l’interno con gli affreschi ad encausto delle cappelle di San Sebastiano e della Pietà.

domenica 19 gennaio 2020

domenica 5 gennaio 2020

Museo della prima guerra Mondiale

Luglio 2019: visita al Museo della I° Guerra mondiale sulla Marmolada
Emozionante e inaspettato a quell'altezza! Ma molte battaglie sono state determinanti proprio al confine!
Non era come in inverno ma il paesaggio era certamente invernale, soprattutto da chi a luglio viene dalla Sicilia!